Nessuno striscione comparirà sui balconi di qualche palazzo in città con su scritto: “VERITÀ PER GILBERTO CAVALLINI”
La Corte di Assise rossa di Bologna, dopo sei ore di consiglio lo ha condannato all’ergastolo! I parenti delle vittime e feriti saranno così risarciti dai contribuenti italiani con una provvisionale immediatamente esecutiva e variabile dai 50 mila euro fino ai 10 mila a seconda se erano parenti di primo grado o parenti alla lontana. Una sentenza che arriva puntuale sotto elezioni, una sentenza politica che non tiene affatto conto della verità oggettiva dei fatti accaduti né delle testimonianze, ma che condanna all’ergastolo un uomo nonostante vi siano non uno,ma mille ragionevoli dubbi sulla sua colpevolezza. Gilberto Cavallini viene dunque condannato all’ergastolo non perché colpevole, ma perché considerato fascista.
Sono due notti che non ci dormo su questa storia. Mi sono ben documentata al riguardo so che questa sentenza non renderà giustizia a quelle 85 persone che il 2 agosto del 1980 rimasero coinvolte nell’esplosione e persero la vita. Non renderà giustizia nemmeno alle altre 200 persone che rimasero ferite. Ma i soldi hanno un peso specifico rilevante nella vita delle persone e pur di averli, si accetta qualsiasi verità, anche quella più ambigua e meno credibile. Se poi c’è “il fascista” di mezzo, in quel di mezzo, tutto diventa lecito in quel di Bologna, la vergogna trova una legittimità più che condivisa. Io però voglio raccontarvi la storia di quel 2 agosto. Voglio raccontarvela con parole mie, col mio solito modo di scrivere semplice affinché tutti possiate capire quante cose non quadrano e come un innocente sia stato condannato all’ergastolo.
Quel 2 agosto 1980, nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna c’è tanta gente. C’è rumore, un vocio intenso dei presenti tutti intenti all’arrivo del treno. C’è chi saluta, chi si abbraccia, chi con la propria valigia si sposta veloce. Ad un certo punto tutto viene spazzato via da un boato fragoroso. Un ordigno esplode causando il crollo dell’ala Ovest, distruggendo una trentina di metri di pensilina e il parcheggio dei taxi antistante lo scalo ferroviario. L’esplosione investe anche il treno Ancona-Chiasso fermo sul primo binario che rimarrà danneggiato. Il tempo si ferma mentre al rallentatore tutto ciò che era stato catapultato in aria, ricade al suolo. Le lancette nel grande orologio esterno della stazione si ferma alle 10.25, segnando anche l’ora in cui la vergogna ha inizio, fino al suo culmine raggiunto con la sentenza all’ergastolo del fascista Cavallini.
Le prime indagini parlano di ventitré chilogrammi di esplosivo (approssimativamente cinque chili di una miscela di tritolo e T4 e diciotto chili di nitroglicerina a uso civile) che avrebbero provocano la morte di ottantacinque persone e il ferimento di oltre duecento. La miscela esplosiva era stata posta in una valigia, poi sistemata su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala Ovest nella sala d’attesa di seconda classe dello scalo ferroviario.
A distanza di 48 ore, con una tempistica più che sospetta, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga asserisce al Parlamento che gli autori e responsabili della carneficina appartengono tutti all’area di destra estrema neofascista. Sconcertante il fatto che il 13 gennaio 1981, viene ritrovata sull’espresso Taranto-Milano una valigia contenente esplosivo identico a quello utilizzato a Bologna. Nella valigia vengono rinvenuti anche provvidenzialmente alcuni documenti di due neonazisti. Sono i documenti di un francese e un tedesco legati al gruppo eversivo neofascista Avanguardia Nazionale. I giornali titolano a confermando che la strage di Bologna è imputabile a menti e mani di Estrema Destra. L’attentato dunque è stato fatto dai fascisti! Poco tempo dopo, il giudice romano Domenico Sica scoprirà che quella valigia era stata messa sul treno da uomini del SISMI, il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare, ma questa notizia non verrà data rilevanza alcuna sulle testate giornalistiche nazionali. È meglio lasciare le cose come stanno, meglio tacere e non dire nulla riguardo l’evoluzione delle indagini.
Io sono fermamente convinta che l’attentato di Bologna del 2 agosto 1980 sia stato indubbiamente un atto terroristico, ma un terrorismo decisamente anomalo, soprattuto se confrontato con i precedenti. Da notare in primis che in quel periodo, eliminato Aldo Moro, e con lui ogni possibilità di apertura al Partito Comunista Italiano a un governo di “alternativa democratica”, la situazione politica interna era pressoché stabilizzata. Per questo motivo, almeno di primo acchito la strage non sembrerebbe rientrare nella cosiddetta “strategia della tensione” che ha caratterizzato negli anni precedenti grazie agli attentati della sinistra il nostro paese. La prima regola del terrorismo vuole che debba darsi sempre un fine ideologico ad un attentato nel programmarne un risultato politico, altrimenti sarebbe solo mera criminalità e gusto sadico di uccidere tanti innocenti. La strage di Bologna non sembra avere ricadute politiche per nessuno, ma qualcuno vaneggiava in merito al fatto che avrebbe potuto anche considerarsi l’ennesima vendetta decisa in Via delle Botteghe Oscure a Roma. Tutto ciò lo lascia presagire anche la forte e insistente attività di depistaggio di chi era intervenuto per sviare le indagini verso altre direzioni. Chi di era intervenuto evidentemente conosceva verità inconfessabili, che potevano minare quella stabilità politica sopraggiunta a fatica dopo altre stragi, omicidi politici e ricatti d’ogni genere e specie che fecero precipitare il nostro paese in uno dei periodi più bui della nostra storia d’Italia.
La “verità giudiziaria” di oggi ci porta a ben tre condanne all’ergastolo, una di queste sentenziata dopo ben 40 anni dai fatti. Le prime due condanne all’ergastolo furono per Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. La terza arriva oggi, proprio sotto elezioni a Gilberto Cavallini. Ci fu anche un’altra condanna a trent’anni di carcere per Luigi Ciavardini che è bene non dimenticare. Tutti e quattro i condannati, a distanza di 40 anni continuano a proclamarsi innocenti per non aver commesso il fatto è nessuno in questo nostro paese civilizzato e così umano chiede verità per loro. Evidentemente per tutti va bene così! Se si tratta di fascisti sapere la verità non conta, condanniamoli e basta!
Dinanzi ai giudici nel periodo delle prime attività dibattimentali furono portati anche due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. C’erano anche due noti faccendieri della loggia massonica P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza, considerati tutti depistatori per quanto riguardava le indagini e per questo processati per calunnia. In quei tempi, il depistaggio non era ancora da considerarsi
Da precisare che Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, non era certo uno stinco di santo, nella sua esistenza non si era certo mai tenuto lontano dai guai e soprattutto nel periodo del servizio militare. Aveva accumulato 134 anni e 8 mesi di carcere, oltre ad altre sei condanne per 8 omicidi tra il febbraio del 1978 e quello del 1981. Il suo curriculum parte dalla sottrazione di due casse di bombe a mano durante una guardia notturna mentre faceva il servizio militare, per proseguire con una condanna per “abbandono di posto”, sempre durante il servizio di leva; seguono la detenzione illegale di armi, l’infrazione della legge sugli stupefacenti, le rapine, la ricettazione, l’associazione per delinquere, la tentata evasione, le lesioni personali, l’associazione sovversiva, il danneggiamento e altro ancora.
La bella Francesca Mambro aveva accumulato 84 anni e 8 mesi di reclusione: i suoi guai partivano dalla banale affissione abusiva di manifesti di propaganda fino alle rapine, ai sequestri di persona, alla violazione di domicilio, alla ricettazione, alla violazione delle disposizioni sul controllo delle armi, alle lesioni personali, all’associazione sovversiva, alla violenza privata, al falso, alla resistenza a pubblico ufficiale, al danneggiamento, alla contraffazione di impronte.
Luigi Ciavardini, all’epoca della strage era minorenne, aveva accumulato condanne per rapine ed era risultato implicato negli omicidi dell’appuntato di polizia Francesco Evangelista e del giudice Mario Amato.
Nessuno dei tre ha mai mostrato segni di pentimento, hanno sempre continuato a rivendicare l’appartenenza ideologica e politica alla Destra estrema e rivoluzionaria, ma anche dichiarando sempre la propria innocenza e totale estraneità ai fatti riguardanti la strage di Bologna. Fioravanti e Mambro, che non hanno mai avuto remore nel rivendicare e riconoscere altri omicidi, nulla avrebbero avuto da perdere, viste le condanne a loro carico, nel rivendicare anche l’attentato di Bologna, ma di quel delitto la destra estrema non era responsabile, loro non erano responsabili e non lo sarebbe mai diventati solo per fare un favore ai giudici.
Da sottolineare inoltre che nessuno e quando dico nessuno dico “NESSUNO” ha mai dimostrato la loro presenza a Bologna quel giorno. Al contrario, Mambro e Fioravanti hanno sempre ripetuto che il 2 agosto erano a Treviso in compagnia di Gilberto “Gigi” Cavallini. Flavia Sbrojavacca, compagna di Gigi, e sua madre, Maria Teresa Brunelli, confermarono che i due avevano dormito a casa di Cavallini e che erano usciti verso le 8,30 del mattino assieme al compagno per andare a Padova, dove avrebbero incontrato Carlo Digilio, un soggetto appartenente al gruppo neofascista di Ordine Nuovo. Tutti e tre erano poi tornati per l’ora di pranzo. Finiscono tutti in carcere per quelle affermazioni e per aver detto la loro verità. L’anziana mamma di Gilberto Cavallini, mentre era in carcere, interrogata e pressata ossessivamente dai giudici riferisce ad un certo punto di “non ricordare bene i fatti di quei giorni”, tuttavia non smentisce la prima deposizione, ma i giudici relazioni scrivendo che l’anziana Maria Teresa Brunelli non ha potuto confermare gli alibi. L’alibi di Fioravanti e Mambro quasi per mera supponenza non viene creduto dai giudici. Ciò che scrivono è quanto segue: “la madre non conferma l’alibi degli imputati e la figlia mente!”.
Flavia Sbrojavacca è l’unica che viene risparmiata e non incarcerata per falsa testimonianza.
Si arriva poi all’ambigua testimonianza di un certo Massimo Sparti, malvivente comune gravitante nell’area di destra estrema, testimone principale dell’accusa nel processo di Bologna. Un personaggio provvidenziale per i giudici però perché gli permette di incastrare Fioravanti e la Mambro. Massimo Sparti viene arrestato il 9 aprile del 1981, due giorni dopo si dichiara provvidenzialmente “PENTITO” e dichiara che Valerio Fioravanti il 4 agosto del 1980 si sarebbe recato da lui a Roma per ottenere un documento falso per Francesca Mambro. In quell’occasione fantasiosa il Fioravanti avrebbe commento l’avvenuta strage con la frase: «Hai visto che botto?», riferendo allo Sparti addirittura di essersi camuffato da turista tedesco per non essere riconosciuto. Sparti inizialmente dichiara ai giudici che il documento contraffatto è commissionato a un tal Ginesi, detto “Ossigeno”, poi si ricorda di aver consegnato la foto della Mambro a un altro falsario, Fausto De Vecchi. Sparti, pur non conoscendo Francesca Mambro, affermò anche nella sua testimonianza che la donna si era tinta i capelli per non essere riconosciuta, ma a seguito del prelievo di una ciocca di capelli dalla stessa Mambro dopo il suo arresto, non si ritrovarono tracce di tintura che solitamente rimangono indelebili in residuo nella struttura del capello.
Sparti, dopo avere accusato i due super indiziati, viene provvidenzialmente scarcerato nel maggio del 1982: i sanitari del penitenziario di Pisa gli diagnosticano un tumore al pancreas in fase terminale, viene scarcerato dunque per essersi reso utile nelle indagini e per offrirgli la possibilità di vivere da uomo libero i suoi ultimi giorni di vita. Ricoverato all’ospedale San Camillo di Roma, Sparti viene miracolato da qualche buon Dio, poiché tumore maligno è sparito senza lasciare alcuna traccia. Nel maggio del 1997, quando i carabinieri, su ordine del pubblico ministero di Bologna, vanno al San Camillo per acquisire la cartella clinica di Sparti, scoprono che la cartella è andata distrutta a seguito di un altro effetto provvidenziale. Un incendio scoppiato il 20 settembre 1991 proprio nell’archivio del nosocomio ha distrutto completamente la cartella clinica di Sparti.
Il supertestimone della magistratura rossa viene smentito a più riprese dalla moglie, Maria Teresa Venanzi, dalla suocera, Argene Zucchetti, dalla domestica e, anche se in maniera più confusa, da due conoscenti di famiglia, Luciana Torchia e Vincenzo Tallarico (zio della collaboratrice domestica), i quali riferiscono che Sparti non si trovava a Roma 4 agosto del 1980, ma nella casa di campagna a Cura di Vetralla, vicino Viterbo. La testimonianza di Sparti cade più volte in contraddizione, tuttavia continua ad essere considerato dai giudici l’unico testimone veramente attendibile, tutti gli altri mentono o per lo meno non dicono quello che vorrebbero sentirsi dire i giudici bolognesi. Suo figlio Stefano, anni dopo, riferirà anche di una confessione di suo padre in punto di morte, in cui gli avrebbe detto di essere stato costretto a inventare di sana pianta la storia. Nonostante tutto la testimonianza di Sparti rimane l’unica agli atti valida per gli inquirenti bolognesi, anche se a sconfessarlo ci si mette pure il secondo falsario, Fausto De Vecchi, il quale arrestato l’8 dicembre 1981, esclude in maniera categorica che le foto consegnatagli dallo Sparti «riproducessero sembianze femminili». Fausto De Vecchi, dopo una serie di sfortunatissimi eventi, quasi per magia ritrattata dieci anni dopo la strage e racconta, in un ambiguo ritorno di memoria, che Sparti, su richiesta di Fioravanti, gli aveva commissionato un documento falso per una donna.
Emerge un altro fantomatico dettaglio: la strage a Bologna era stata preannunciata già un mese prima da una soffiata, ma stranamente nessuno aveva fatto niente per verificare la fondatezza delle confidenze. Il 10 luglio 1980, un detenuto chiaramente neofascista del carcere di Padova, tal Luigi Vettore Presilio, aveva riferito al Giudice di sorveglianza di Padova, il dottor Tamburino, di aver appreso che di lì a poco si sarebbe realizzata per mano della destra estrema un gravissimo attentato. Un attentato terroristico «di tali proporzioni per cui ne avrebbe parlato la prima pagina di tutti i giornali del mondo». Luigi Vettore Presilio aveva precisato anche la data dell’attentato, che «si sarebbe verificato nella prima settimana d’agosto». Vettore Presilio a sua volta aveva ricevuto la confidenza da Roberto Rinani, anche lui chiaramente neofascista inserito nella cellula eversiva Ordine Nuovo di Massimiliano Fachini. Rinani al processo, nonostante un accordo stilato con i giudici per lui assai vantaggioso negherà di aver mai conosciuto e parlato con Vettore Presilio in carcere. Di tutto ciò il giudice Tamburino avrebbe tempestivamente informato i funzionari della Digos di Bologna. Per il fallimento di questa rivelazione che non porta a nulla, Luigi Vettore Presilio viene accoltellato in carcere da quattro uomini incappucciati. Per qualcuno, l’attentato della confidenza offerta da Presilio era riferito alla mancata strage a Milano di Palazzo Marino della notte tra il 29 e il 30 luglio 1980 quando una Fiat 132 imbottita di esplosivo deflagrò pochi minuti dopo l’uscita dei consiglieri comunali da Palazzo Marino, la strage fu evitata anche grazie al fatto che un altro tubo di piombo e una tanica contenenti altro esplosivo furono proiettati all’esterno della vettura e fortunatamente non esplosero. La mano e la mente dietro al tentato attentato della Fiat 132 però non furono certo di estrema destra. Tuttavia la confidenza parlava chiaro: l’attentato si sarebbe verificato nella prima settimana d’agosto.
La possibilità di un attentato di “enormi proporzioni” nei primi giorni di agosto è anche riferita il 31 luglio 1980 nel rapporto scritto al SISDE (il Servizio segreto civile) del colonnello Amos Spiazzi, che aveva ricevuto la confidenza pochi giorni prima dal neofascista Francesco Mangiameli, detto Ciccio, durante una passeggiata sul Lungotevere di Roma. A seguito di un’intervista all’Espresso, Spiazzi, pur non rivelando il nome del suo informatore, lo identifica col soprannome di Ciccio, decretando la condanna a morte di Mangiameli, che avviene il 9 settembre del 1980, a Tor dei Cenci presso Roma, per mano di un ipotetico commando composto da Francesca Mambro, Valerio e Cristiano Fioravanti, Giorgio Vale e Dario Mariani.
Il giudice Amato, nelle audizioni del 25 marzo e 13 giugno 1980 davanti al CSM, segnala con enfasi l’estrema pericolosità dinamitarda dei gruppi eversivi di Destra.
Sulla scena del crimine in quel di Bologna appaiono presenze inquietanti e reperti appartenenti a personaggi legati ad altro terrorismo, diverso dunque da quello neofascista, eppure pare che per i giudici con una visione a senso unico nulla di quello che viene trovato sia rilevante. Per loro, l’unica strada possibile è quella di una responsabilità diretta della destra estrema.
Eppure tra le macerie generate dall’esplosione viene ritrovato un passaporto intestato a un certo Salvatore Muggironi. Era un professore di origine sarda il cui nome risultò legato alla Sinistra extraparlamentare del periodo. Lo smarrimento del documento non venne mai denunciato dal proprietario. Come mai quel passaporto finì nella stazione di Bologna proprio il giorno dell’attentato?
Le schede personali di Salvatore Muggironi indicano la sua affiliazione a un gruppo della Sinistra extraparlamentare operante in Sardegna. All’interno di questo gruppo risultavano militanti anche Giovanni Paba e Franco Secci, due personaggi arrestati nel 1976 poiché ritrovati su un treno per Amsterdam proveniente dalla Repubblica Federale tedesca con armi ed esplosivo, quest’ultimo molto simile a quello utilizzato a Bologna nel 1980. Oltre alla santabarbara itinerante, i due avevano con sé un elenco di nominativi di terroristi italiani e palestinesi detenuti nelle carceri italiane.
Muggironi, confermò la sua presenza a Bologna nell’estate del 1980 per effettuare una visita oculistica (il professore aveva effettivamente seri problemi alla vista), riferendo di aver alloggiato alla Pensione Fusari e all’Hotel Apollo. Lo smarrimento del documento fu giustificato da una involontaria dimenticanza dello stesso presso un suo amico pizzaiolo di origini sarde, tale Franco Fulvio Berardis, che successivamente si rifiutò di restituirlo. Nessun riscontro concreto fu trovato alle dichiarazioni di Salvatore Muggironi circa i luoghi dove aveva alloggiato e neppure alla visita oculistica e all’amico pizzaiolo. Le indagini su Muggironi furono comunque archiviate dalla magistratura bolognese.
Un’altra presenza inquietante era presente a Bologna nei giorni della strage, quella di Thomas Kram, un tedesco esperto in esplosivi con un passato nelle Revolutionäre Zellen (Cellule Rivoluzionarie), una organizzazione eversiva della Sinistra estrema attiva nella Germania occidentale, e poi schedato dalla STASI, il servizio segreto della Repubblica Democratica Tedesca, come elemento pericoloso del gruppo terroristico filo-palestinese del venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, meglio conosciuto come Carlos. Il tedesco Kram era a Bologna, forse accompagnato anche una donna, Christa Margot Frohlich, anch’essa esperta in esplosivi e legata al gruppo di Carlos. Quest’ultima nel 1982, verra arrestata all’aeroporto romano di Fiumicino con del tritolo T4 al plastico, esplosivo del tutto identico a quello utilizzato per il depistaggio sul treno Taranto-Milano e, quindi, anche a quello utilizzato per la strage a Bologna. Quel che risulta certo è che il tedesco di estrema sinistra aveva trascorso la notte del 1° agosto 1980 nell’albergo Centrale, nella stanza n.21, per poi allontanarsi da Bologna nella tarda mattinata del 2 agosto e proprio in quella stazione dove è avvenuta poi la deflagrazione.
Queste presenze a Bologna avevano aperto nuovi scenari, avrebbero dovuto indirizzare gli inquirenti verso una nuova pista, quella “palestinese”. Alla base di questa potenziale e sostenibile ipotesi, la strage avrebbe avuto un movente, ossia un atto ritorsivo da parte del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash, ma avrebbe potuto essere anche uno scoppio accidentale legato al trasporto di esplosivo legato ad altri scopi relativi sempre alla pista palestinese.
Pochi ne sono al corrente, ma grazie a precise complicità e sinergie tra la sinistra che aveva spinto affinché il governo italiano e i guerriglieri palestinesi raggiungessero un tacito accordo di non belligeranza, si era fatto garante anche lo stesso Aldo Moro con l’intermediazione del colonnello Stefano Giovannone, uomo dei SISMI in medioriente. L’accordo stabiliva grosso modo che ai palestinesi fosse tacitamente concesso il trasporto di armi, esplosivi e munizioni sul suolo italiano verso altri paesi europei, astenendosi però da qualsiasi azione terroristica in Italia. Dal 1973 in effetti i palestinesi non attuarono mai attentati in Italia. Un evento fortuito interruppe questo accordo: il 7 novembre 1979, a bordo di un furgone che trasportava due missili Sam-7 Strela provenienti dal Libano, furono arrestati tre militanti della sinistra estrema comunista di Autonomia operaia romana. A Bologna fu arrestato anche Abu Anzeh Saleh, giordano, responsabile in Italia del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”. Nella sua agenda fu rinvenuto un numero di telefono accanto al nome di un certo “Stefano”. Quel numero corrispondeva all’utenza telefonica romana del colonnello Stefano Giovannone. Il colonnello incaricato da Aldo Moro DC di raggiungere l’accordo di non belligeranza.
L’arresto di Saleh a Bologna non piacque al leader palestinese George Habbash, che si sentì a sua volta tradito negli accordi raggiunti col governo italiano. L’8 marzo 1980 la questura di Bologna aveva segnalato al Viminale un forte nervosismo negli ambienti della resistenza palestinese per la detenzione di Saleh, mentre l’11 luglio il prefetto Gaspare De Francisci, capo dell’UCIGOS, l’Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali della Polizia, inviò un’informativa al SISDE, il servizio segreto civile, e al questore di Bari (Saleh era detenuto nel carcere speciale di Trani), lanciando l’allarme di potenziali ritorsioni terroristiche sul suolo italiano da parte del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”. Esattamente ventidue giorni dopo la bomba esplose nella stazione di Bologna.
Da segnalare che nonostante Abu Anzeh Saleh fosse stato condannato a sette anni di reclusione, l’8 agosto 1981, dopo aver scontato appena ventuno mesi di reclusione, fu istantaneamente scarcerato su ordine della Cassazione. Più tardi il giordano Abu Anzeh Saleh smentirà categoricamente le pressioni esercitate sullo Stato italiano dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. La sua scarcerazione dunque era avvenuta così, quasi per magia. Negò addirittura di aver avuto rapporti con il Carlos del venezuelano Ilich Ramírez Sánchez. Non spiegò mai il perché del suo indirizzo bolognese, “via S. Pio V 13, secondo piano a sinistra” e nessuno ebbe interesse mai ad approfondire tale dettaglio significativo. Quell’indirizzo di Abu Anzeh Saleh fu ritrovato nei documenti di Mourkabal Michel Walid, luogotenente dello stesso Carlos, a seguito di una perquisizione in Francia.
Nel 1982 si scopre qualcosa legato anche alla P2 di Licio Gelli. Al momento del suo arresto a Ginevra viene sequestrato al venerabile un documento scritto di suo pugno con l’intestazione “Bologna” seguita da un numero di conto corrente di una banca svizzera. In quel promemoria vi erano riportati i dati di un finanziamento avvenuto subito prima e dopo la strage di Bologna di 13.970.000 dollari in favore di più persone, tutte indicate da sigle. Questo documento assegnerebbe a Gelli e al suo entourage il ruolo di mandante e di finanziatore della strage. Tuttavia per i giudici il tutto era evidentemente da scartare, secondo loro non c’erano elementi concreti per fondare l’ipotesi di un finanziamento da parte di Gelli. Quindi, non si poteva dimostrare sia una sua erogazione economica sia una sua collaborazione all’esecuzione della strage correlata a un progetto di rivolgimento istituzionale violento legato alla strategia della tensione. O meglio, la strategia della tensione legata alle Brigate Rosse era un capito che non poteva essere nuovamente tirato in ballo né poteva tornare a far parlare di se sui giornali.
Una ultima ipotesi, suffragata anche dal giudice in pensione Rosario Priore e dal giornalista e avvocato Valerio Cutonilli, riguarda sempre la pista palestinese, ma con destinazione finale diversa da quella di Bologna. In pratica lo scoppio nella stazione del capoluogo emiliano fu casuale, mentre doveva essere il carcere di Trani la destinazione finale dell’esplosivo, per far evadere Abu Anzeh Saleh lì detenuto. Questa ipotesi è stata fortemente rigettata dal presidente dell’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980”, che ha finanche sbandierato il reato di depistaggio per il giudice. Ciò a cui mirava e ha evidentemente anche ottenuto il Presidente dell’Associazione familiari delle vittime era quello di attribuire la responsabilità della strage di Bologna univocamente agli schieramenti neofascisti di destra estrema. Ogni prova, ogni smentita di questa linea andava rigettata. Ancora oggi gli stessi propendono ad assicurare alla “LORO GIUSTIZIATA FONDATA SUL PREGIUDIZIO” persone innocenti e paragonando l’attività giudiziaria per la strage di Bologna addirittura ad una vera e propria iniziativa equivalente a quella per assicurare alla giustizia i criminali nazisti di 70 anni fa
Per questo una volta sospesa la condanna a Saleh, anche le posizioni di Thomas Kram e di Christa Margot Frohlich furono archiviate e cestinate dai giudici nel febbraio 2015. Abbandonata definitivamente la pista palestinese, quella che si doveva ad ogni costo perseguire era quella neofascista che dopo varie pressioni si riapre nel marzo 2017, con la notifica, a seguito di un dossier presentato nel luglio 2015 dell’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980”, all’ex NAR Gilberto Cavallini di concorso nella strage di Bologna. Secondo i familiari delle vittime Gilberto Cavallini aveva partecipato alla preparazione dell’attentato e aveva fornito i covi in Veneto alla latitanza di Fioravanti e Mambro.
Dopo quarant’anni gli italiani hanno solo una verità giudiziaria alla quale molti faticano a credere, perché monca di mandanti, finanziatori e, soprattutto, movente. Nonostante la magistratura abbia concluso il suo percorso individuando se così si può dire gli esecutori materiali dell’orribile mattanza, la strage di Bologna – come abbiamo visto – resta uno degli episodi più tristi della storia italiana. Abbiamo visto molte verità condite da un mix di disinformazione, depistaggi, presenze straniere ed eversive inquietanti, mancanza apparente, forse solo apparente di un risultato politico.
Le ultime parole di Gilberto Cavallini dopo la sentenza all’ergastolo sono state le seguenti: “Non posso chiedere scusa per qualcosa che non ho fatto, a Bologna io non devo chiedere scusa a nessuno!”
Questa non è giustizia, questa non è democrazia, questa è solo l’ennesima vergogna! Perché non credo ci sia nulla di peggiore che immaginare un uomo in carcere a vita, quando si sa che ci sono molti ragionevoli dubbi sulla sua colpevolezza! Con quale coscienza si può accettare tutto ciò?
Forse con i soldi dei risarcimenti della provvisionale destinati ai familiari delle vittime si potrebbe? Forse, ma a quel punto significherebbe anche coprire un crimine con un altro crimine dettato dall’odio diffuso da una delle peggiori ideologie che abbiamo in Italia.
L’antifascismo!
#IoSonoItalia🇮🇹
Grande articolo, veramente interessante e completo. credo che per acquisire tutte quelle informazioni sui fatti, i testimoni, gli accusati, i moventi, i mandanti e tutte le altre informazioni, ci sia stato un grande lavoro di ricerca e questo lavoro deve avere coinvolto molte persone. Complimenti davvero. Per ora sei solo una piccola donna, ma io lo so, diventerai una GRANDE Italia.
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Grazie di cuore Cesare. 🇮🇹
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